Lucrezio e Virgilio

LO SCONVOLGIMENTO DELL’ARMONIA DELLA NATURA IN LUCREZIO COME IN VIRGILIO

Lucrezio, il grande poeta latino autore del De Rerum natura, facendo conoscere agli uomini il messaggio di Epicuro, avrebbe voluto liberarli dalla paura degli dei e della “religio” e renderli felici. Questo filo conduttore, la ricerca della felicità, lega l’uomo e tutti gli altri esseri viventi (ferae et pecudes) a una natura rappresentata dall’ amorosa Venere, che istilla il soffio della primavera e un tripudio di vita. Ho voluto ricordare questi versi di un poeta dell’antichità che ha indagato la condizione umana di quel tempo.

1-Genetrix, hominum divumque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
5-concipitur visitque exortum lumina solis:
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
10-Nam simul ac species patefactast verna diei
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aeriae primum volucres te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
Inde ferae pecudes persultant pabula laeta
15-et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
Denique per maria ac montis fluviosque rapaces
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
20-efficis ut cupide generatim saecla propagent.
Quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse
25-quos ego de rerum natura pangere conor
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem.
Effice ut interea fera moenera militiai
30-per maria ac terras omnis sopita quiescant.
Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reicit aeterno devictus vulnere amoris,
35-atque ita suspiciens tereti cervice reposta
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus,
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circumfusa super, suavis ex ore loquelas
funde petens placidam Romanis, incluta, pacem.

Ma nel De Rerum Natura non esiste solo il Lucrezio , che encomia l’Alma Venus generatrice del tripudiante mondo che ci circonda a primavera. Esiste anche il Lucrezio che esprime il suo sgomento al culmine del processo di disgregazione della natura ( nei vv. 370- 375 de VI LIbro De Rerum Natura.).

nec porro natura loci spatiumque profundi 370
deficit, exspargi quo possint moenia mundi,
aut alia quavis possunt vi pulsa perire.
Haud igitur leti praeclusa est ianua caelo,
nec soli terraeque, neque altis aequoris undis,
sed patet immani et vasto respectat hiatu. 375

Traduzione:
Né d’altra parte mancano lo spazio e la profondità dell’abisso, dove le barriere del mondo possano disperdersi o, colpite da qualsiasi altra forza, perire. Dunque la porta della morte non è chiusa al cielo, né al sole, né alla terra, né alle correnti profonde del mare, ma sta spalancata e li guarda e li attende con smisurata e orribile voragine.”

O anche il Lucrezio che , davanti alle sofferenze prodotte dalla peste che non distrugge solo i corpi ma anche il contesto civile e sociale, descrive l’ultimo disperato abbraccio delle vittime:

Lucrezio, De Rerum Natura VI vv 1256-1258
Examinis pueris super examinata parentum/
corpora nunquam posses retroque videre/
matribus et patribus natos super edere vitam.

Tutti e due Virgilio e Lucrezio aspiravano a una tranquilla pax, alla serenità della vita realizzata attraverso il lavoro umano, però eventi catastrofici e malattie possono mettere in pericolo la società umana. La digressione sulla peste, che colpì la regione alpina del Nòrico , conclude, al termine del III libro delle Georgiche, la sezione sui pericoli di malattia del bestiame e di una sua decimazione. Nel testo virgiliano si riflette come in filigrana La «peste d’Atene», il finale grandioso e terribile impresso da Lucrezio al suo poema, dando spessore alla reciprocità tra il destino degli animali e quello dell’uomo. Così, anche se nel testo virgiliano l’uomo non è affetto dal contagio in un primo tempo, si sente vibrare nei versi il suo coinvolgimento nella devastazione provocata dalla peste del bestiame. Essa sovverte l’ordine naturale, impedisce il culto religioso, segna un regresso all’ età che precedette l’invenzione dell’aratura. Pertanto è giusto per Virgilio l’ideale di felicità rappresentato nel makarismòs della vita agricola, ma esso è continuamente insidiato dall ’avversa fortuna e dal pericolo di catastrofici eventi. Virgilio, vissuto nella pienezza della sua vita vent’ anni dopo la morte di Lucrezio, pur avendo una visone pessimistica della condizione umana, aderì in pieno ai progetti di Mecenate, che voleva che la cerchia dei grandi letterati, raccolta intorno a lui, sostenesse il disegno politico di Cesare Ottaviano, il princeps romano che ebbe il cognomen di Augustus, il quale dopo le guerre fratricide garantiva un periodo di pace e relativa prosperità, recuperando il valore dell’agricoltura italica che era stata, forse ancor più che l’esercito, alla base della formazione dell’impero. Ma l’adesione al progetto di Mecenate di esaltazione della figura e della politica di Augusto era per Virgilio solo una speranza, non significava che la sua anima malinconica e propensa alla visione dolorosa nelle vicende umane cedesse il posto alla semplice celebrazione.

Virgilio , Le Georgiche , libro III vv. 483- 502

Hic quondam morbo caeli miseranda coorta
est tempestas totoque autumni incanduit aestu
et genus omne neci pecudum dedit, omne ferarum,
corrupitque lacus, infecit pabula tabo.
Nec via mortis erat simplex, sed, ubi ignea venis
omnibus acta sitis miseros adduxerat artus,
rursus abundabat fluidus liquor omniaque in se
ossa minutatim morbo conlapsa trahebat.
Saepe in honore deum medio stans hostia ad aram,
lanea dum nivea circumdatur infula vitta,
inter cunctantis cecidit moribunda ministros;
aut si quam ferro mactaverat ante sacerdos,
inde neque impositis ardent altaria fibris,
nec responsa potest consultus reddere
vates, ac vix suppositi tinguntur sanguine
cultri summaque ieiuna sanie infuscatur harena.
Hinc laetis vituli volgo moriuntur in herbis
et dulcis animas plena ad praesepia reddunt,
hinc canibus blandis rabies venit et quatit aegros
tussis anhela sues ac faucibus angit obesis.
Labitur infelix studiorum atque immemor herbae
victor equus fontisque avertitur et pede terram
crebra ferit ; demissae aures; incertus
sudor etile quidem morituris frigidus ; aret
pellis et ad tactum tractanti dura resistit.

Virgilio Marone, l’autore delle Bucoliche, dell’Eneide e delle Georgiche, secondo Elio Donato, grammatico del IV secolo d. C. che scrisse una biografia su Virgilio, ebbe con Lucrezio Caro l’ affidamento della fiaccola della poesia . Si legge in Donato “ Initia aetatis Cremonae egit usque ad virilem togam, quam XV anno natali suo accepit iisdem illis consulibus iterum duobus, quibus erat natus, evenitque ut eo ipso die Lucretius poeta decederet. Sed Vergilius a Cremona Mediolanum et inde paulo post transiit in urbem.”. Quindi Lucrezio sarebbe morto nello stesso giorno in cui Virgilio assumeva la toga virile. In effetti visse anche lui, almeno in parte il periodo delle guerre civili . Un’ eco della distruzione e delle paure che le guerre portarono si ha nell’Egloga I che descrive il dialogo fra Titiro e Melibeo. Il primo, grazie a un potente protettore, può continuare a vivere tranquillamente nelle sue terre, mentre l’altro è costretto ad abbandonarle in quanto vengono distribuite ai veterani della guerra.
Dalle Bucoliche, Egloga I,VV. 1-5 ” Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi/ silvestrem tenui musam meditaris avena;/ nos patriae finis et dulcia linquimus arva, / nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus, in umbra/ formosam resonare doces Amaryllida silvas “.
dopo le spiegazioni di Titiro, Melibeo riprende a cantare frasi dolorose “ undique totis usque adeo turbatur agris.”. C’ è uno scompiglio nei campi e anche gli animali come gli uomini soffrono “ En ipse capellas protenus aeger ago: hanc etiam vix, Tityre, duco”. L’animo sensibile di Virgilio è scosso da questi eventi, ma al contrario di Lucrezio spera nella possibilità che si realizzi un periodo di pace Dopo le Bucoliche nasce in lui, riferendosi anche ad Esiodo e alla vasta letteratura latina sull’ argomento a partire da Catone Marco Porcio Catone, detto il Censore, vissuto nel II secolo a. C. e autore del De Agricoltura, l’idea di un’ opera che celebri il valore e il significato del lavoro umano. Quest’ idea , alimentata anche da Mecenate e da Ottaviano Augusto, trova espressione nelle Georgiche . L’ opera virgiliana è un vero e proprio canto allo straordinario sforzo degli uomini di trarre frutto dalla terra con le loro incessanti attività. Ma ci sono pericoli e insidie che il contadino deve fronteggiare ( Il frumento conosce il travaglio, la ruggine può divorare gli steli, il cardo ozioso pungere nei campi, le messi perire, si possono estendere fra le splendide colture l’aspra sterpaglia e l’infecondo loglio..). L’Itala tellus, rigogliosa e fertile, è fonte di sostentamento e di vita, ma solo il lavoro instancabile può trarne rigogliosi frutti. In Virgilio, così come in Lucrezio, c’è dunque una valutazione positiva dell’operosità umana che, posta di fronte a ostacoli, incognite e pericoli, escogita il modo di superarli, dando vita alla scienza e alle varie arti. Ma nelle Georgiche virgiliane così come nel De rerum natura l’armonia può essere improvvisamente sconvolta.